Nel guardare a san Giuseppe potremmo iniziare soffermandoci sui vari titoli che nel corso dei secoli gli sono stati attribuiti. Anche per la nostra realtà associativa è stato scoperto quello di: “san Giuseppe imprenditore”. Però, non sono gli elenchi specifici a valorizzare san Giuseppe, o il soffermarci sugli aggettivi che ci aiutano a comprendere, perché la sua dignità dobbiamo innanzitutto coglierla nella realtà dell’Incarnazione, fondamento della Redenzione. San Giuseppe è stato insieme con Maria, nel “disegno” della salvezza “ministro fedele mediante l’esercizio della sua paternità”, ed è stato, nella pienezza del tempo, scelto da Dio «per essere l’ordinatore della nascita del Signore … nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane» (Giovanni Paolo II, Redemptoris Custos, n.8).
Nella sua realtà di sposo di Maria e padre di Gesù, san Giuseppe, «ha sperimentato la ministerialità della paternità umana: escluso dalla generazione a motivo dell’origine divina del Figlio, ha assunto, tuttavia gli impegni più onerosi della paternità, ossia l’”accoglienza” e l’”educazione” della prole, elementi che rientrano, insieme alla generazione, nella “natura” della paternità umana» (Stramare, San Giuseppe fatto religioso e teologia, p. 275).
Abbiamo, perciò, da imparare da san Giuseppe, secondo l’esortazione di Giovanni Paolo II: «Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a tutti: agli sposi e ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all’apostolato» (Redemptoris Custos n. 32).
È in questa dimensione di servizio che il “fare” di san Giuseppe ispira le nostre azioni quotidiane e l’operosità sapendo che nella sua missione di essere, dopo Maria, il più vicino a Gesù, lo ha realizzato anche con il sua attività: «era un lavoratore: non uno scienziato, non un dottore della legge, non un dirigente politico, non un professionista, non un sacerdote, ma un “carpentiere”. E questo non per caso, ma per volontà di Dio Padre». (san Giovanni Paolo II, Ivrea, 19 marzo 1990). Gesù viene definito dai suoi concittadini, anche se con una domanda ironica, «il figlio del falegname» (Mt 13, 55). La parola greca usata è tékton. Ma come tradurla? Come interpretarla? Per quel tempo, a quale categoria sociale si faceva riferimento? Secondo gli studiosi il temine tékton indica il falegname o il carpentiere, e non il fabbro ed è riferito a chi con il suo mestiere lavora materiale duro, che rimane tale durante la lavorazione come il legno, la pietra, il corno, l’avorio. «Tuttavia non bisogna dimenticare che il legno non serviva solo per approntare aratri o mobili vari, ma anche come vero e proprio materiale di costruzione edilizia: infatti oltre ai serramenti in legno, i tetti a terrazza delle case palestinesi di allora erano allestiti con travi connesse tra loro con rami, argilla, fango e terra pressati» (Ravasi, Giuseppe, il padre di Gesù, p. 59). La vita che viveva la santa Famiglia era decorosa e modesta e l’attività di san Giuseppe era legata al mercato, alle commissioni, all’incremento edilizio, alle richieste, alle tasse sia civili e sia religiose. San Giuseppe era addentro a questo mondo che i lavoratori e gli artigiani conoscono bene, perciò può essere definito “il santo delle partite Iva”.
Stando accanto a Giuseppe e sotto la sua guida, Gesù, Figlio di Dio, «impara l’arte del falegname e la esercita fino a trent’anni, proponendo in se stesso “il Vangelo del lavoro”. Nel corso della sua esistenza terrena, Giuseppe diviene così l’umile e laborioso riflesso di quella paternità divina che agli Apostoli verrà rivelata sul monte della Trasfigurazione» (Giovanni Paolo II, Giubileo degli artigiani, 19 marzo 200).
Trasmettendo a Gesù le sue conoscenze, competenze, esperienze di lavoro e di impresa, Giuseppe gli ha consentito di imparare onestamente un mestiere al punto che è identificato “il falegname” (tekton) (Mc 6, 3). Far crescere un figlio da parte di un padre nelle tradizioni, nella conoscenza della Thorà (la Legge), nel rispetto degli altri, fargli apprendere un mestiere, voleva dire offrirgli dignità in rapporto alla società e ambiente dove vivevano, e garantirgli il futuro. Il tempo della vita nascosta di Cristo a Nazareth ha una caratteristica essenziale: “ha imparato” a essere uomo, «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» (Gaudium et spes n. 22) e tutto ciò stando «sottomesso» (Luca 2, 51) e crescendo «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Luca 2, 52) con una madre e un padre, Maria e Giuseppe.
Una vita quotidiana di lavoro, nell’amore di una famiglia, per guadagnarsi da vivere stando in un ambiente prettamente rurale e in un minuscolo villaggio della Galilea meridionale, sebbene in una regione fertile. Vivevano ai margini dell’impero romano dove c’erano tra i duecento e quattrocento abitanti, un paesino ebraico di nessuna importanza, sebbene a sei chilometri da «Sepphoris, una vivace città di tremila anime, che al tempo di Erode Antipa si stava ricostruendo» (J. Martini, Gesù, un pellegrinaggio, p. 115).
Non sappiamo se Giuseppe e Gesù lavorarono anche lì, ma ciò che conta è che «Gesù, oltre al titolo davidico, indispensabile per il suo riconoscimento di Messia, riceve da Giuseppe, come ogni altro figlio, anche quella dimensione umana concreta che lo caratterizza, ossia “lo stato civile, la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’ambiente familiare, l’educazione umana” come ebbe a dire Paolo VI» (Stramare, Giuseppe lo chiamò Gesù, p. 186).
Nella “laboriosità” di Nazaret Giuseppe è maestro e Gesù apprende l’arte del carpentiere. «Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della redenzione» (Redemptoris Custos n. 22).
Ed è questa vicinanza di padre e figlio che li fortifica diventando “operativi”. Gesù impara da Giuseppe e Giuseppe guarda a Gesù, e la sua attività diventa “contemplativa”, in comunione con il Verbo fatto carne, il figlio che gli è stato donato e che deve custodire anche nel lavoro.
Giovanni Paolo II ci aiuta a comprendere che «Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura» (Laborem Exercens, n. 1).
Ecco perché il lavoro “unge di dignità” come afferma papa Francesco, perché «Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona … ci rende simili a Dio che ha lavorato e lavora sempre (cf Giovanni 5, 17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione». Se allarghiamo lo sguardo sulla realtà globale, non possiamo dimenticare le «difficoltà che, in vari Paesi, incontra oggi il mondo del lavoro e dell’impresa; penso a quanti, e non solo giovani, sono disoccupati, molte volte a causa di una concezione della società, che cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale». Perciò devono essere chiamati in causa «i responsabili della cosa pubblica … a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione» (papa Francesco, udienza generale, 1 maggio 2013).
Certamente anche san Giuseppe si sarà trovato in momenti difficili, perciò può essere di esempio per la sua tenacia e soprattutto per la sua incrollabile fiducia nel Signore, come uomo giusto e forte, ma anche pieno di tenerezza. Ecco perché la Chiesa lo invoca come patrono dei lavoratori e ne celebra una particolare ricordo, il 1° maggio.
La missione educativa di san Giuseppe richiede impegno, fatica, ma nello stesso tempo conosce anche soddisfazioni. Pur nelle difficoltà di ogni giorno sono insieme, datore di lavoro e operaio, perciò possiamo invocare san Giuseppe, non solo come protettore dei lavoratori, ma anche degli imprenditori. Certamente sarà stato stimato perché persona onesta e di qualità, ma probabilmente avrà dovuto anche mettersi alla ricerca di lavoro, organizzare l’attività quotidiana, prendere delle decisioni, insegnare come si utilizzava un attrezzo, e in qualche modo assumersi delle responsabilità
da “imprenditore”.
Poter lavorare, e offrire occupazione in modo onesto è una missione, e significa avere e offrire dignità. È quanto afferma papa Francesco nella Evangelii Gaudium: «La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita: questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo» (EG n. 203). In questa dimensione di “un bene più grande”, è stato coinvolto anche san Giuseppe come “amministratore”. Ma per noi oggi è necessario promuovere, come afferma papa Francesco nella Laudato sì, «un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale».
Perciò «Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica. L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (LS n. 129)
San Giuseppe, l’uomo giusto, il saggio capofamiglia, che ha dovuto e saputo muoversi anche nella notte e nelle difficoltà, non è stato il detentore di un potere, ma ha saputo fare con dedizione tutto quello che serviva per la sua santa famiglia, per il suo villaggio e anche per l’attività che doveva svolgere per il bene dei suoi. Ha dovuto difendere la sua sposa e il figlio sfuggendo al tiranno, agendo sempre con giustizia e onestà. Certamente possiamo imparare da lui a gestire le situazioni con piena fiducia nel Signore, per fare la sua volontà cercando il bene, non solo il proprio tornaconto. Come amministratore fedele e saggio che il Signore ha posto a capo della sua casa, san Giuseppe continui a proteggere lavoratori e datori di lavoro, famiglie e comunità. Andiamo da lui per imparare l’arte del custodire.