Perché serve un ponte tra scuola e lavoro

Come è noto, il Decreto Legge 107/2015 definito della “Buona Scuola” introduce la seguente affermazione: “La nuova alternanza scuola-lavoro è disciplinata dai commi 33 ai commi 43 della legge 107/2015. Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti, i percorsi di alternanza scuola-lavoro di cui al decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, sono attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio. Le disposizioni del primo periodo si applicano a partire dalle classi terze attivate nell’anno scolastico successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge. I percorsi di alternanza sono inseriti nei piani triennali dell’offerta formativa”.

E’ interessante notare che lo scopo primario del legislatore risulta essere quello di “…incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti…”. Si parla dunque di lavoro e di orientamento al lavoro creando un ponte fra scuola e lavoro ma senza fare alcun cenno a cosa sia il lavoro e al perché l’uomo, da che mondo è mondo, è connaturato al lavoro stesso. In pratica è come se questo ponte avesse impostato il pilastro di partenza (la scuola) ma fosse assolutamente sprovvisto del pilastro di arrivo, appunto ..il lavoro. Mandare gli studenti a vivere questa “alternanza” sarebbe dunque come inviare una persona a visitare una mostra senza sapere chi espone, perché espone, cosa espone, e saper giudicare se capace un giorno di adattarvisi.

Si ritiene che l’intendimento del legislatore sia certamente virtuoso in quanto propone un percorso prospettico di una realtà che prima o poi ogni studente dovrà incontrare ma, proprio per questo, tale percorso manca della necessaria informazione di cosa sia il lavoro, quale la sua genesi, quale la sua natura, quali risvolti abbia sul comportamento umano, quali attitudini richieda e in definitiva quale senso assegnargli per una futura condivisione che occuperà un’intera esistenza.

Se dovessimo domandarci cosa sia il lavoro e perché si lavora, temo che ciascuno di noi non saprebbe cosa rispondere, salvo argomentare tutto il negativo che il lavorare comporta con la necessaria fatica e …”sudore della fronte!”. Qualche tempo fa, un professore della Università Cattolica di Milano, Albino Claudio Bosio, ha svolto una indagine sui prodotti maggiormente richiesti dalle nuove generazioni e ne ha tratto una sintesi del pensiero giovanile che così si condensa: “…nasco per studiare, studio per lavorare, lavoro per guadagnare, guadagno per …..spendere !!! …”. Questa affermazione evidenzia drammaticamente come la diffusa cultura dei giovani sui temi dello studio e del lavoro sia totalmente sprovvista di senso e come la vita stessa si possa dispiegare senza senso alcuno.

Fatte queste necessarie premesse, si presenta un’ipotesi di intervento presso le scuole che debbono avviare gli studenti alla alternanza scuola-lavoro. Prendiamo lo spunto da una recente esperienza presso una scuola del bergamasco. Come metodo è stato usato un processo interattivo senza imporre alcun insegnamento specifico ma seguendo, come in un rapporto nonno-nipoti, un approccio di domande e considerazioni successive cui tentare possibili risposte. L’obiettivo che ci siamo posti è stato quello di gettare un ponte opposto fra le rive del lavoro e le rive della scuola, per mostrare quali identità il lavoro ricerca nelle persone che escono da una più o meno lunga stagione di studi.

La prima considerazione che è stata fatta dagli studenti con una certa immediatezza è quella che lavoriamo per il nostro sostentamento. Il lavoro comporta una necessaria remunerazione. Qui gli studenti si sono già arrestati non sapendo cos’altro rispondere. Un breve percorso sulla storia del mondo conferma che l’uomo ha sempre lavorato traendo inizialmente dalla terra a dagli animali il proprio sostentamento. Il lavoro e l’operosità umana hanno comportato uno sviluppo del benessere sempre crescente, passando da attività artigianali molto diversificate a comunità di lavoro chiamate “imprese”, atte a produrre beni durevoli e di consumo. Ma la domanda di fondo del perché lavoriamo, in tale contesto non ha trovato ancora alcuna risposta.

Una prima ipotesi particolarmente suggestiva e interessante ci viene suggerita dalla Bibbia nei primi capitoli della Genesi. Dio si presenta come un grande lavoratore che, giorno dopo giorno, si attiva a creare il mondo e di esso ne resta pienamente soddisfatto: e vide che era cosa buona”. Dopo aver creato l’uomo e la donna, Dio rivolge all’umanità alcune precise indicazioni: Andate e moltiplicatevi, date un nome a tutte le cose create animate e inanimate, abbiate buona cura del creato, continuate nella mia opera creatrice“. Dare un nome a tutte le cose visibili e invisibili significa, nel linguaggio antico, prenderne possesso. Far buona cura del creato, significa provvedere a curarlo, a mantenerlo integro, a prenderlo in cura attraverso una sana e corretta amministrazione. Continuare nell’opera creatrice, non necessita di spiegazione se non per un chiaro invito rivolto all’umanità di proseguire nella Sua opera straordinaria della creazione. In definitiva il “messaggio” che Dio lascia alla intera umanità ha tutto l’aspetto di una vera e autentica “vocazione” al lavoro.

Per inciso, anche Gesù, figlio di Dio, viene riconosciuto e identificato come ”il figlio del falegname” e pertanto lavoratore egli stesso, artigiano nella bottega di falegnameria del padre Giuseppe. Secondo questa ipotesi, l’umanità “lavora per vocazione” prima ancora che per … remunerazione, ovvero vive lo scopo primario del lavorare non nel compenso di una qualche retribuzione, bensì nella disposizione naturale a operare, agire, trasferire il proprio personale contributo per la necessaria trasformazione del mondo.

Proviamo ora a dare una struttura a questo istinto primordiale, a dare un senso a questo bisogno di personale realizzazione, appunto a questa nostra “vocazione”. Viviamo nel pieno di una cultura della conoscenza, che rappresenta un vero patrimonio dell’umanità. Attraverso Internet siamo oggi in grado di conoscere praticamente tutto ciò che ci interessa e in pochi secondi con un semplicissimo click possiamo ottenere la risposta che desideriamo. Tutto il sistema formativo, da quello scolastico a quello universitario, è predisposto e impegnato a trasferire conoscenza alle nuove generazioni. Le scuole propongono essenzialmente una vasta formazione di carattere culturale, le università trasmettono sostanzialmente competenze, specializzazioni, scienze.

Tuttavia all’impegno particolarmente dedicato alla formazione non si è verificato un pari impegno educativo volto a creare una adeguata coscienza, destinata a sostenere e guidare la conoscenza stessa. E’ venuto dunque a mancare “quello sviluppo integrale della persona” tanto raccomandato da ben tre encicliche sociali presentate da altrettanti e differenti Papi: la Populorum progressio (1967) di Paolo VI°, la Sollecitudo rei sociali (1987) di Giovanni Paolo II° e la Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI° .

Un tipico esempio di immediata comprensione è il seguente. La grande scoperta dell’energia atomica ha comportato un approfondimento della realtà della materia e del suo straordinario potenziale energetico, ma ha anche portato alla creazione del più grande potenziale distruttivo che l’uomo abbia mai inventato e prodotto. Lanciare o non lanciare una bomba atomica non risiede evidentemente nell’ambito della conoscenza ma si innesta soltanto in una risposta della coscienza. Si ritiene che la conoscenza rappresenti un sostanziale “potere”: poter comprendere, poter discernere, poter decidere, poter operare, poter verificare…Ma è tuttavia la coscienza che rappresenta il vero “sapere”: saper comprendere, saper discernere, saper decidere, saper operare, saper verificare e così via. Senza una adeguata coscienza, la conoscenza non può andare da nessuna parte o si orienta liberamente verso ogni possibile parte. L’accesso al mondo del lavoro richiede dunque un necessario equilibrio fra formazione ed educazione, fra conoscenza e coscienza. Ci si è domandati allora quali competenze di base sono richieste per armonizzare, affiancare e sostenere ogni persona che vive nel mondo del lavoro.

La prima è il senso di responsabilità, che è la coscienza che ogni nostro gesto, ogni nostra espressione, ogni nostra azione, interagisce con quella degli altri.

La seconda, che discende dalla prima, è la capacità di relazione, che è la coscienza di vivere in un mondo non autonomo o isolato ma in relazione con altre persone.

La terza, che ancora discende dalle due precedenti, è la coscienza dell’altro non come oggetto ma come soggetto di relazione, che conserva pari dignità e merita altrettanta pari dignità.

A queste competenze, e a titolo di esempio, se ne affiancano molte altre come la capacità di adattamento, la volontà di condividere, il coraggio di intraprendere, la passione per il lavoro, il gusto della creatività, il senso di appartenenza, la gratuità del dono.

Sotto questa luce, il lavoro supera il senso riduttivo della semplice remunerazione e assume una nuova e autentica identità, dove la persona umana diviene centro e baricentro di tutta l’economia, capace di realizzare quello sviluppo creativo che Dio ha voluto per l’umanità fino dalle più antiche origini del mondo. Solo a questo punto si può aprire un nuovo scenario che riguarda l’impresa come comunità di persone, luogo del lavoro dove sostanzialmente si acquista, si produce, si amministra e si vende… ma questo appartiene a un nuovo capitolo.

L’AUTORE

Alessandro Crespi è cresciuto in una famiglia bustocca di industriali tessili, attivi sin dalla fine del 1700. E’ stato presidente della Associazione Industriali di Novara e presidente del Gruppo Imprese Tessili di Novara (1974-84). Dal 1996 al 2010 è stato presidente dell’Ucid Novara e responsabile culturale in seno al comitato di presidenza nazionale Ucid sul tema del “Lavoro come Dono”. Dal 2011 al 2014 è stato presidente dell’Ucid Gruppo regionale lombardo e membro della commissione “Formazione e Promozione”.